Una ricetta letteraria
...
I genitori di un alunno di 2^ B ci hanno
segnalato una ricetta fra le più dettagliate che si conosca, di cui riportiamo
alcuni stralci, un esempio di come si
può fare letteratura parlando di cucina.
Carlo Emilio Gadda
Risotto patrio
L’approntamento
di un buon risotto alla milanese domanda riso di qualità, come il tipo Vialone,
dal chicco grosso e relativamente più tozzo del chicco tipo Caterina, che ha
forma allungata, quasi di fuso. Un riso non interamente « sbramato », cioè non
interamente spogliato del pericarpo, incontra il favore degli intendenti
piemontesi e lombardi, dei coltivatori diretti, per la loro privata cucina. Il
chicco, a guardarlo bene, si palesa qua e là coperto dai residui sbrani d’una
pellicola, il pericarpo, come da una lacera veste color noce o color cuoio, ma
esilissima: cucinato a regola, dà luogo a risotti eccellenti, nutrienti, ricchi
di quelle vitamine che rendono insigni i frumenti teneri, i semi, e le loro
bucce velari. Il risotto alla paesana riesce da detti risi particolarmente
squisito, ma anche il risotto alla milanese: un po’ più scuro, è vero, dopo
l’aurato battesimo dello zafferano.
Recipiente classico per la cottura del
risotto alla milanese è la casseruola rotonda, ma anche ovale, di rame
stagnato, con manico di ferro: la vecchia e pesante casseruola di cui da un
certo momento in poi non si sono più avute notizie: prezioso arredo della
vecchia, della vasta cucina: faceva parte come numero essenziale del « rame » o
dei «rami» di cucina, se un vecchio poeta, il Bussano, non ha trascurato di
noverarla nei suoi poetici « interni », ove i lucidi rami più d’una volta
figurano sull’ ammattonato, a captare e a rimandare un raggio del sole che,
digerito il pranzo, decade. Rapitoci il vecchio rame, non rimane che aver fede
nel sostituto: l’alluminio.
La casseruola, tenuta al fuoco pel
manico o per una presa di feltro con la sinistra mano, riceva degli spicchi o
dei minimi pezzi di cipolla tenera, e un quarto di ramaiolo di brodo,
preferibilmente di manzo: e burro lodigiano di classe. Burro, quantum prodest,
udito il numero de’ commensali. Al primo soffriggere di codesto modico apporto,
butirroso-cipollino, per piccoli reiterati versamenti, sarà buttato il riso: a
poco a poco, fino a raggiungere un totale di due tre pugni a persona, secondo
l’appetito prevedibile degli attavolati: né il poco brodo vorrà dare inizio per
sé solo a un processo di bollitura del riso: il mestolo (di legno, ora) ci avrà
che fare tuttavia: gira e rigira. I chicchi dovranno pertanto
rosolarsi e a momenti indurarsi contro il fondo stagnato, ardente, in codesta
fase del rituale, mantenendo ognuno la propria « personalità »: non impastarsi
e neppure aggrumarsi.
Burro, quantum sufficit,
non più, ve ne prego; non deve far bagna, o intingolo sozzo: deve untare ogni
chicco, non annegarlo. Il riso ha da indurarsi, ho detto, sul fondo stagnato.
Poi a poco a poco si rigonfia, e cuoce, per l’aggiungervi a mano a mano del
brodo, in che vorrete esser cauti, e solerti: aggiungete un po’ per volta del brodo,
a principiare da due mezze ramaiolate di quello attinto da una scodella «
marginale », che avrete in pronto. In essa sarà stato disciolto lo zafferano in
polvere, vivace, incomparabile stimolante del gastrico, venutoci dai pistilli
disseccati e poi debitamente macinati del fiore. Per otto persone due
cucchiaini da caffè. Il brodo zafferanato dovrà aver attinto un color giallo
mandarino: talché il risotto, a cottura perfetta, venti-ventidue minuti, abbia
a risultare giallo-arancio: per gli stomaci timorati basterà un po’ meno, due
cucchiaini rasi, e non colmi: e ne verrà fuori un giallo chiaro canarino. Quel
che più importa è adibire al rito un animo timorato degli dei è reverente del
reverendo Esculapio o per dir meglio Asclepio, e immettere nel sacro « risotto
alla milanese » ingredienti di prima (qualità): il suddetto Vialone con la
suddetta veste lacera, il suddetto Lodi (Laus Pompeia), le suddette cipolline;
per il brodo, un lesso di manzo con carote-sedani, venuti tutti e tre dalla
pianura padana, non un toro pensionato, di animo e di corna balcaniche: per lo
zafferano consiglio Carlo Erba Milano in boccette sigillate: si tratterà di
dieci dodici, al massimo quindici, lire a persona: mezza sigaretta. Non
ingannare gli dei, non obliare Asclepio, non tradire i familiari, né gli ospiti
che Giove Xenio protegge, per contendere alla Carlo Erba il suo ragionevole
guadagno. No! Per il burro, in mancanza di Lodi potranno sovvenire Melegnano,
Casalbuttano, Soresina, Melzo, Casalpusterlengo, tutta la bassa milanese al
disotto della zona delle risorgive, dal Ticino all’Adda e insino a Crema e
Cremona. Alla margarina dico no! E al burro che ha il sapore delle saponette:
no!
Tra
le aggiunte pensabili, anzi consigliate o richieste d iperintendenti e ipertecnici,agli figurano le midolle di osso (di bue) previamente accantonate e
delicatamente serbate a tanto impiego in altra marginale scodella. Si sogliono
deporre sul riso dopo metà cottura all’incirca: una almeno per ogni commensale:
e verranno rimestate e travolte dal mestolo (di legno, ora) con cui si adempia
all’ultimo ufficio risottiero. Le midolle conferiscono al risotto, non più che
il misuratissimo burro, una sobria untuosità: e assecondano, pare, la funzione
ematopoietica delle nostre proprie midolle. Due o più cucchiai di vin rosso e
corposo (Piemonte) non discendono da prescrizione obbligativa, ma, chi gli
piace, conferiranno alla vivanda quel gusto aromatico che ne accelera e ne
favorisce la digestione.
Il risotto alla milanese non deve
essere scotto, ohibò, no! solo un po’ più che al dente sul piatto: il chicco
intriso ed enfiato de’ suddetti succhi, ma chicco individuo, non appiccicato ai
compagni, non ammollato in una melma, in una bagna che riuscirebbe schifenza.
Del parmigiano grattugiato è appena ammesso, dai buoni risottai; è una
banalizzazione della sobrietà e dell’eleganza milanesi. Alle prime acquate di
settembre, funghi freschi nella casseruola; o, dopo S. Martino, scaglie
asciutte di tartufo dallo speciale arnese affetto-trifole potranno decedere sul
piatto, cioè sul risotto servito, a opera di premuroso tavolante, debitamente
remunerato a cose fatte, a festa consunta. Né la soluzione funghi, né la
soluzione tartufo, arrivano a pervertire il profondo, il vitale, nobile
significato del risotto alla milanese.
C’è un aspetto che colpisce: Gadda si
rivela non solo accurato ed esperto in
ingredienti e tecnica, ma segue chi si accinge a cucinare passo passo senza
saltare una tappa nel procedimento. Chi non ha troppa dimestichezza con i
fornelli trova la generosa concessione del tempo da parte di
chi scrive e non il linguaggio rapido che contraddistingue i nostri tempi.
Forse per avere ricette perfette, per mangiare bene si dovrebbero usare questi
ingredienti: prosa abbondante ed accurata e scienza.
Nessun commento:
Posta un commento